Il telefono rosso di Batman, il brodo di pollo e altre schiaccianti prove dell’esistenza di Dio – di Roberto Di Egidio

Se non ce l’avessero menata negli ultimi duecento anni con la storia dell’oppio dei popoli e del non fidarci delle toghe, oggi probabilmente saremmo più propensi a ritenere che in fondo stare lì a lambiccarci il cervello nella scelta fra ateo e religioso è fuorviante e che la natura intima dell’uomo, la sua anima, è di carattere spirituale.

Lo ha detto Bruno, lo ha detto Jung, e anche molti altri con parole diverse, in lingue diverse, in epoche diverse. Tutti hanno detto la stessa cosa: tutti hanno detto che l’anima è il canale di comunicazione con l’Assoluto. È il luogo dove il Verbo si esprime, ci parla. E questa comunicazione non è solo possibile, è anche naturale. È invece la mancanza di dialogo con l’Assoluto che è non naturale.

Pensiamoci un attimo allora. Immaginiamo che la storia sia più o meno questa: il sopracitato Assoluto, detto anche “Dio”, crea la materia per dare una risposta ad una sua domanda pressante, una domanda che lo attanaglia da sempre, da quando ha scoperto di non potersi guardare l’ombelico, e cioè:“io chi sono?”.
Questo Dio però non dobbiamo immaginarcelo come un signore anziano con la barba e i capelli lunghi e canuti che se ne sta seduto su una nuvoletta di cotone idrofilo a tessere le fila delle disgrazie terrene, perché ciò ci porterebbe completamente fuori strada. Dobbiamo immaginarcelo piuttosto come un enorme, gigantesco Cicciobello, invisibile e fluttuante nell’Oceano sconfinato dell’immaterialità che si ciuccia il pollice e gioca a creare la materia grazie ai suoi superpoteri. Questo ci renderà più sopportabile non poter rispondere alla domanda che da sempre attanaglia invece noi, il genere umano, e che suona, nella sua versione classica, più o meno così: “perché esistiamo?”.

Ora è bene sottolineare che questo Dio, anche se è molto simile ad un bambolotto, non è per niente sprovveduto e ogni volta che sta per rilasciare qualcosa o qualcuno nella dimensione materiale provvede sempre a metterci dentro un’anima. Un po’ come fanno gli studiosi, nei documentari, che assicurano dei radar agli animali prima di restituirli ai loro habitat naturali. In questo modo Dio si sente tranquillo perché sa in ogni momento dove siamo e cosa facciamo ed è sicuro che se lo vogliamo, possiamo metterci in contatto con Lui e viceversa.
Però anche l’anima, nel cercare di capirne l’essenza, dovremmo rendercela il più familiare possibile. Dovremmo pensarla come uno strumento vero e proprio, creato per noi, per le nostre esigenze di comunicazione con il grande capo. Un oggetto di design, elegante ed allo stesso tempo essenziale, capace di assicurare una comunicazione nitida e priva di interferenze, su una linea stabile e dedicata.
E allora chi può venirci in aiuto meglio del telefono rosso di Batman? Si cari lettori, facciamolo lo sforzo e immaginiamoci un bel telefono rosso porpora stile Batman, senza numeri e con una luce intermittente al centro che gracchia allarmata dall’altra parte del filo ogni volta che lo alziamo per parlare con Dio. E a questo punto immaginiamoci anche Lui, il grande capo, che all’istante si tuffa verso il telefono, quasi rimbalza sul linoleum della scrivania e in scivolata afferra la cornetta per rispondere alla nostra richiesta di aiuto.

Converrete con me che adesso il quadro si delinea meglio. Le cose sono più facili. Sono più vicine a noi, al nostro modo di sentire e di pensare. Così vicine che quasi lo possiamo toccare il nostro Dio Cicciobello. Lo vediamo lì, di fianco a noi, che ci accompagna gattonando nell’ora della nostra nascita e, prima di darci la fatidica spintarella che ci fa entrare nella bolgia della materialità cosmica, ci mette in mano la nostra personalissima, e fedelissima all’originale, copia del telefono rosso di Batman e poi, senza tanti ripensamenti, ci butta di sotto, abbandonandoci così allo spaventoso precipitare degli eventi del mondo.
Fin qui tutto liscio ovviamente. Il problema sorge però ora: il problema è che (per ragioni che qui sarebbe troppo lungo spiegare) in questo spaventoso precipitare degli eventi che si ripete come un eterno temporale di energia da miliardi di anni, si sono sviluppate nel mondo materiale due diverse correnti di pensiero: l’una che nega l’esistenza sia di Dio che del telefono e l’altra che, da una parte pretende d’imporre la propria paternità sul concetto di Dio, e dall’altra subappalta la possibilità di parlarci ad uno sparuto gruppo di ditte specializzate, uniche detentrici, a detta di tale corrente, di un simile privilegio.
A farne le spese ovviamente siamo noi che fin dalla più tenera età ci dimentichiamo di essere stati paracadutati nel mezzo della battaglia con la nostra bella razione K di anima e vaghiamo per tutta la vita spaventati dietro le linee nemiche, inventandoci in perfetto stile Cartesio le più paradossali e sconclusionate e personalissime prove sull’esistenza o meno di Dio atte solo a farci sopportare l’idea altrimenti insopportabile della morte, della fine del gioco.

Ma non è stato e non sarà sempre così. Ci sono stati, e ci sono ancora, momenti della storia in cui forse le difficoltà, forse il disagio, ci hanno fatto ricordare di quel nostro Dio come ci si ricorda di un amico del quale si erano perse le tracce da tempo. Ma ci sono anche molte altre strade percorribili per tornare a ricordare. A volte può succedere per caso, a volte semplicemente facendosi una passeggiatina verso Damasco, a volte facendo un po’ di silenzio come succede in un certo Oriente culturale. In ogni caso, quale che sia il metodo, ciò che importa è il tornare a ricordare. E piano piano, attraverso questo sforzo di riscoperta, ci rendiamo conto oltre che dell’esistenza di Dio anche di avere un anima. Ci accorgiamo di non averla mai perduta. Capiamo che è sempre stata lì, con noi, pronta all’uso per cui è stata concepita. E allora il telefono torna a squillare perché dall’altra parte c’è Lui, il nostro enorme, gigantesco Cicciobello, di nuovo pronto a scivolare sul linoleum della scrivania fino ad arrivare ad afferrare la cornetta come un giocatore di baseball che conquista in scivolata una base.

Solitamente chi riinizia a parlare con Dio lo trova sempre molto eccitante per le cose meravigliose che Egli ha da dirgli e vorrebbe comunicarlo anche agli altri ma ha paura perché pensa che lo derideranno o lo prenderanno per pazzo o, ancor peggio, lo rinchiuderanno in un qualche posto senza finestre dove ci sono altri come lui che fremevano e non sono stati in grado di tenersi il cecio in bocca. E così alla fine i più desistono, si tengono la cosa per loro, trascinano il loro segreto nel buio della tomba evitando così pericolose condivisioni. Ma questa non è l’unica strada: c’è un metodo che è stato elaborato e testato nel corso dei secoli da generazioni e generazioni di Beati Conversatori con Dio che consiste nel trascrivere le parole del Divino in una forma diciamo“velata”, più sopportabile alla moltitudine e che soprattutto consente di evitare fastidiosi inconvenienti quali martìri, torture, roghi, deportazioni e via discorrendo.
A tal proposito di esempi ce ne sono a bizzeffe: la contemplazione condivisa delle albe e dei tramonti, le scritture sacre, le opere di Leonardo da Vinci, La Nascita di Venere del Botticelli, gli haiku di Matzuo Basho, L’Infinito di Leopardi, le canzoni dei Cure, ma anche cose più banali come un legno ben intagliato, un eremo scavato con sapienza nella pietra della Majella o, perché no, un buon brodo di pollo la domenica a pranzo. Queste cose, tutte insieme, sono testimonianze di una avvenuta conversazione con Dio. Tutte insieme formano una sorta di enorme macchina contascatti spirituale.

Ora, proprio perché sono passati tanti secoli, tutte queste cose meravigliose che creiamo o celebriamo per far capire agli altri che Dio esiste e ci si può parlare, sono sparse tutt’intorno a noi e ci osservano. Ci parlano dall’alto dei piedistalli di marmo delle piazze, dalle cornici delle pinacoteche, dagli scaffali delle biblioteche, dalle tavole imbandite, dalle botteghe degli artigiani, dai profili delle montagne nelle notti d’agosto quando la luna è crescente. E noi, pian piano, messi sempre più alle strette, alla fine cediamo e ci concediamo alla loro bellezza.
La contempliamo, la assaporiamo, ci passiamo sopra le dita percependone ora la rugosità delle infinitesime pieghe ora la scivolosità voluttuosa dei dettagli. E col tempo questo esercizio di spirito diventa essenziale e ineludibile. E allora molteplici pensieri attraversano la mente, molteplici emozioni scuotono nel profondo il nostro animo. In breve il flusso di esperienze diventa incontrollabile ed esse si affollano, si schiacciano avanzando fra di loro fino a formare una sorta di solidità, una struttura ultima e senziente, una superficie liscia e bianca che anticipa sempre l’evocazione finale di Dio e l’epifania dell’anima.

È superato questo punto di non ritorno che finalmente ci mettiamo a sedere incolumi e, fermatosi per un attimo il tempo, alziamo il ritrovato telefono e lo lasciamo squillare. E quando dall’altra parte il nostro interlocutore gattona elegantemente sul linoleum e fa per afferrare la cornetta e portarla all’orecchio, noi senza ulteriore indugio per primi parliamo, e gli diciamo:

“Ciao

         Dio

               sono

                           io”

E il miracolo si compie.

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