La banalità dell’ovvio è un argomento ostico di cui parlare. Dal 2020 in poi, la situazione è anche peggiorata.
Trincerati nelle case, con una finestra sempre aperta al cielo web, è diventato più naturale parlare di bourguignonne con un aborigeno australiano, come direbbe Guzzanti, che di come ci si sente a farlo. A parlarne proprio con lui, l’aborigeno che è dall’altra parte del mondo, che ha trovato una connessione nella steppa e, chissà come, è diventato un tuo contatto. Ma anche fosse un aborigeno di Pavia o di Vibo Valentia o di Linz, sarebbe uguale, sarebbe comunque un aborigeno lontano, anche se virtualmente vicino e tu resteresti comunque sul tuo divano, con le braghe della tuta morbide e poco virtuali, con delle protesi alle orecchie per ovattare i rumori, che probabilmente non sono quelli degli animali della steppa, ma del cantiere dall’altra parte della strada, a parlare con lui ancora di bourguignonne, perché è diventato naturale anche se sei chiuso in casa da un anno e stasera a cena sarai da solo a mangiare un poke da asporto e vorresti dirglielo, cambiare discorso, farti raccontare del suo primo amore, di cosa vuol dire avere le farfalle allo stomaco, di cosa sognavi di fare da grande, ma non sei più capace e resti lì ancora un’ora, a parlare di quanto sia buffo che un piatto dal nome francese non sia francese. Buffo, no?
È banale parlare d’amore, ovvio. È anche ovvio scrivere banalità d’amore. Ma quanto è bello! E poi… è possibile non farlo? È come non parlare di morte se sei vivo.
Leggere salva la vita. Mentre leggi, mentre ti innamori di una storia è difficile progettare un suicidio, insomma è più difficile. Se stai scrivendo un libro magari ti apri una bottiglia per emulare certi miti letterari come Hemingway e Bukowski, per dire, e se ti fai male cadendo dalla sedia è perché sei ubriaca, non perché avevi intenzioni autolesioniste dichiarate. O per lo meno non era quella l’intenzione madre. Perché la scrittura è salvifica, è curativa.
C’è un discorso del 2005 di David Foster Wallace che inizia con una storiella che forse tutti conoscono, ma che io ogni tanto dimentico: “Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta fa un cenno di saluto e poi dice: “Buon giorno ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due giovani continuano a nuotare per un po’ e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?”
Tutto qui. È la banalità dell’ovvio. Ma la vita è così. Anche dopo il 2020.